(quasi) tutta la verità

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Durante il primo giorno di lezione in un gruppo nuovo c’è sempre una cosa all’ordine del giorno: loro non si conoscono tra di loro, nessuno conosce l’insegnante, e allora bisogna conoscersi. Mettersi tutti in cerchio e presentarsi, fa subito tantissimo Robert Paulson e il suo gruppo di gonadectomizzati in Fight Club, quindi anche no. Cerco sempre di fare delle cose alternative, ma a ‘sto giro le avevo esaurite.
La mia collega F, che è una specie di Houdini della didattica, mi ha passato questa attività super alternativa. Io sono molto timida e certe volte prima di entrare in classe vorrei farmi un goccetto – spesso me lo faccio dopo, in effetti – e  per essere brava in classe devo convincermi per un paio d’ore di essere qualcun altro. Comunque questa attività mi piaceva troppo, e quindi mi sono fatta coraggio e l’ho fatta.
Funziona che l’insegnante disegna alla lavagna un riquadro con sei vignette e man mano le riempie, una per una. Gli studenti devono fare ipotesi sul titolo di ogni vignetta in base al suo contenuto.Le categorie vengono scritte man mano che la classe fa ipotesi a tempesta e viene fuori l’ipotesi corretta. Alla fine si scopre che che 1) La mia famiglia 2a) una cosa che amo 2b) una cosa che odio 3) un bel ricordo 4) un hobby 5) un desiderio 6) un progetto.
Poi viene chiesto loro di fare lo stesso e infine si mostrano i loro disegni tra di loro e li commentano. Nella più felice delle ipotesi qualcuno limonerà con qualcun altro entro la fine della lezione, o il troppo entusiasmo causerà un paio di angina pectoris e sarà necessario usare il primo soccorso.

Mentre gli studenti della mia classe livello B1 – una classe che contiene una giovane linguista fidanzata con un lucano, un affermato imprenditore nel settore della ristorazione, un dirigente bancario, due marketing manager poliglotte, una francesina appena andata in sposa a un romano – facevano diligentemente i loro disegnetti per il solo fatto che glielo aveva chiesto la loro autorevole insegnante, io guardavo il mio disegno alla lavagna e riflettevo.
Quando F mi aveva mostrato l’attività mi era piaciuta e avevo pensato “ok, mi inventerò qualcosa da disegnare”. Ho fatto anche delle prove sul foglio, in aula docenti, per essere sicura di avere le idee chiare. Non era tanto l’esecuzione tecnica a preoccuparmi, era piuttosto che volevo arrivare in classe con le idee chiare: volevo avere già bell’e pronta la versione accattivante della mia vita, quella con appeal, quella che facesse dire ai miei studenti “ok, al momento sembra che questa donna non sia finita a insegnare solo perché nel suo Paese non hanno un posto per tenere gli individui instabili e socialmente pericolosi”. Non volevo architettarla così all’impronta, ‘sta versione qui.
In realtà è finita che non c’è stato molto da architettare, ho mentito solo due volte: odio guidare la macchina molto più di quanto odio i ragni, ma disegnare una macchina con un’erinni furiosa alla guida che miete pedoni e altri veicoli mi sembrava tecnicamente impegnativo, oltre che un poco angosciante di ‘sti tempi di allarmi terrorismo.
Poi non me lo ricordo quasi per niente il giorno della laurea: mi ricordo con molta più emozione della prima volta che il barbuto mi è saltato addosso e io non me l’aspettavo affatto, di quando ho visto “C’era una volta in America” in piazza maggiore, di quando siamo andati a prendere la Nana per portarla a casa una domenica pomeriggio d’autunno dopo che eravamo stati a pranzo nel parco dell’ Arcoveggio col laghetto delle papere ed era un periodo tanto triste, della prima volta che ho tirato una sfoglia grande come un sudario e l’Adriana e la Veleda hanno fatto i complimenti alla Rosa che m’aveva insegnato perché complimentarsi con me direttamente era del tutto prematuro. Ma ci sarebbe voluto troppo spazio.
Per il resto ho detto la verità su tutto, la verità è stata abbastanza per una volta.
Una strana sensazione, vi dirò.

L’ultimo giorno d’estate

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Oggi qui è l’ultimo giorno d’estate.  E’ stato il settembre più caldo di sempre, qui in Olanda: trenta gradi e praticamente niente pioggia per quasi venti giorni, un record. Da domani, ma forse anche da stasera, pioverà e le temperature scenderanno di una quindicina di gradi e tutti torneremo a bestemmiare l’Onnipotente quando i temporali ci coglieranno nel pieno delle nostre attività quotidiane. I miei studenti, i miei compagni di classe, più o meno tutti lo sanno: da una settimana tutti sanno che oggi sarà l’ultimo giorno d’estate, poi basta.
E quindi oggi c’è questa aria un po’ da fine del mondo, da ultima notte del soldato, quelle cose lì. Noi viviamo sopra il parchetto del quartiere, mentre scrivo i ragazzini stanno ancora giocando a calcio. Il sole sta tramontando proprio ora, e tutti sappiamo che da domani sarà tutta un’altra storia e lo sarà per un bel po’.
Comunque va be’dai, un po’ era ora. Quando arriva aprile mi chiedo sempre come ho fatto a sopravvivere all’inverno, me lo chiedo sul serio e me lo chiedo tutti gli anni. Ma settembre, che di fatto è l’inizio di quella cosa lì che mi stupisco ogni volta di sgavagnare, è il mio mese preferito. Anche se mi fa diventare triste, anche se ci sono stati dei settembre tristissimi e spalancati sul baratro dell’incertezza, è stata sempre la porta di anni di cambiamento che averceli.
Ho un nuovo pensatore di riferimento da circa un mese, si tratta di Donald Draper (Anal Raper, nel lessico familiare mio e di mio marito). In una puntata della sesta stagione Don cerca di portarsi a casa un cliente importante e gli spiega più o meno la strategia e a un certo punto dice “Noi vendiamo felicità. Sai cos’è la felicità? E’ il momento subito prima di quando desideri altra felicità”. Banale, forse. Ma non avrei saputo dirlo meglio.
Settembre è quel momento lì: altra felicità, per favore, possibilmente subito. Altre cose da fare, da rincorrere, da mettere dentro quest’anno. Altre cose da desiderare fortissimo.

I miei parenti votano tutti

Da meno di una settimana sono discesa all’isola per la consueta dodici giorni di passione.
In realtà si tratta di una cosa super simpatica: io passo dodici giorni di carcere duro qui e, incredibilmente, questo condona  tutto e mio padre può usare per altri dodici mesi la sua frase preferita: “purtroppo qui non c’è futuro, per questo se n’è andata, ma lei è innamorata di questa terra…”
Sì, suca.
Per quindici anni dal 2001 al oggi, ogni primavera, è scattata la grande caccia all’alibi: l’occupazione estiva con cui giustificare il fatto che, accidentissimo, anche quell’estate avrei potuto fare non più di una manciata di giorni, mannaggia ai pesci. Ci ho fatto entrare di tutto: esami, corsi di formazione, lavori veri e simulati…tutto.
Temo che, a un certo punto, anche ai più scarsamente dotati membri del mio parco parenti sia iniziato a balenare il sospetto che io  in fondo avrei accettato volentierissimo  anche un lavoro come estetista per lebbrosi, piuttosto che passare l’intera estate qui. Naturalmente, il fatto che costoro sospettassero tutto ciò mi ha sempre lasciata del tutto indifferente, ma il mio unico genitore è un esponente tra i più illustri del disagio psichico che affligge gran parte della popolazione di questa disgraziata isola. Parlo di quella particolare condizione della mente che impone che chi ne soffre consideri il darsi la morte come unica praticabile via d’uscita per il fatto di essere stato vittima di un giudizio di valore che egli reputa di segno negativo  da parte di uno o più membri del proprio gruppo sociale di appartenenza.
Pertanto, da qualche anno, per dodici giorni, metto in valigia i paramenti che ho tenuto con me al corso di formazione per pachidermi ammaestrati: lustrini, nastrini, una palla confortevole, il libro dei barriti, i mille e uno modi per interagire con le scimmie in maniera efficace, e mi faccio condurre a cena da questi deboli di mente alleviando così la croce paterna dello stigma sociale che egli è fermamente convinto di portare [ma in realtà chi se lo incula, n.d.r.].
Ieri c’era la zia cui mio nonno ha impedito – negli anni Sessanta – di frequentare il liceo perché era contrario alle classi miste, e questa cosa è oggi un argomento di conversazione come un altro.
C’era il marito di mia cugina che si è vantato per mezz’ora di aver fatto piangere una hostess ventenne della Ryanair.
C’era la moglie di mio cugino, che naturalmente è una convinta cinquestella perché questo le consente di avere finalmente un’opinione di ferro su cose che non conosce e nessuna spinta a conoscerle perché tanto sa già tutto-tutto-tutto e molto di più. Lei e mio cugino, anche lui cinquestello, leggono Il Giornale di Sicilia alla pelosa ricerca di notizie sui nuovi indagati per fatti e fattarelli di ordinaria disonestà, ma proprio attentamente. La cosa procura loro un paio di conseguenze gradevoli. Intanto, un piacere secondo solo a quello che provavo io a 8-10 anni quando cercavo i grumi di sabbia secca sulla cute di mia sorella dopo una giornata al mare…Roba da capezzoli duri, parliamoci chiaro. In secondo luogo, il fatto che sul giornale queste due persone non trovino MAI il proprio nome ma sempre quello di qualcun altro, fornisce loro l’incontrovertibile certezza di stare  dalla parte del giusto al di là di ogni ragionevole dubbio: anche oggi sul giornale c’è scritto che sono una brava persona, urrà per me.
Tutto questo fa sì che tutti possiamo ridere allegramente quando loro ci raccontano di aver frodato una compagnia aerea richiedendo (e ottenendo) un rimborso di 610 euro per una valigia smarrita che conteneva merce per 50 euro.
Ieri c’erano anche un paio di donne affaccendate a dar da mangiare a due bambini  che sarebbero stati perfettamente in grado di trucidare una mucca, figuriamoci di mangiare una bistecca. Eppure una di loro ha passato qualche minuto del suo tempo a togliere i pezzetti di pomodoro dal piatto di pasta fredda di un bambino che a settembre andrà in terza elementare.
C’era mio zio plurifedifrago e naturalmente sua moglie – “quella è buona per farci il ghiaccio”, sibila Vivian Ward dopo aver stretto la mano alla moglie del merdoso Stuckey durante la partita di polo, e io ogni volta vorrei darle il cinque – che lo ha recentemente ripreso in casa. Ci sono i loro due figli, il più grande è nato durante i mondiali di calcio del 1994, è sempre più grasso, ha un grande anello di fidanzamento all’anulare destro e si riferisce a se stesso dicendo “noi” anche se lei non c’è: “Noi avremmo potuto fare un anno di università lì, ma abbiamo preferito restare qui” e nessuno chiama la neuro-deliri.
Io e la madre cornuta abbiamo avuto una conversazione notevolissima che mi sento di riportare:
– Ma quindi vi siete portati la macchina lì?
– No, non ci serve: l’abbiamo venduta. Lì la macchina serve pochissimo per la vita quotidiana.
– E come vi muovete?!
– In bicicletta, sempre. Al massimo coi mezzi.
– Ma quindi la gente che ha figli come fa?
– ehm…in bicicletta, al massimo coi mezzi, come ti dicevo.
– No, fammi capire: se io ho tre figli…
– Uno sta nel sediolino davanti, uno nel sediolino dietro, il terzo – se hai avuto delle normali gravidanze di nove mesi e una pausa fisiologica di cinque mesi tra un parto e l’altro – sa già andare da solo in bici e ti sta pedalando accanto.
– Ma non si ammalano? Qui si ammalano! Non è normale che facciano ‘sta cosa.
– No, forse no, ma sai…è questione di punti di vista. Ci sono paesi in cui la madre di un bambino  raffreddato ritiene che lo stigma sociale cui è, per forze di cose, sottoposta sia tutto sommato sopportabile, ha imparato ad accettarlo. Voi comunque ci state lavorando: state partendo col deresponsabilizzare tutte le madri di bambini obesi e diabetici, che per fortuna però non hanno mai avuto un raffreddore.

Se Dio esistesse farebbe morire queste persone inutili. Carne da cannone in un’epoca senza cannoni.

C’è la figlia di mia cugina, poi, che è realmente carina e molto intelligente e mi ricorda molto me e mi fa stringere il cuore: ha 11 anni ed è un mostro, fa paura per quanto è sveglia e dotata ed è in trappola, e naturalmente non lo sa. Lei pensa che sia giusto così, non ha vie d’uscita se vuole sopravvivere. Deve realmente continuare a pensare che sia giusto così e continuare a fare quello che fa se non vuole perdere l’amore della sua famiglia, cosa che ovviamente la ucciderebbe.
Ha parlato con me per tantissimo tempo e ha cercato in ogni modo di impressionarmi e io naturalmente ho finto di essere impressionata. Mi ha fatto tante domande e ha previsto ogni singola risposta, prima ancora di formulare la domanda, per essere sicura che la risposta potesse essere un valido appiglio per una controrisposta ancora più impressionante. So quello che fai, avrei voluto dirle, l’ho inventata io questa cosa: altrimenti nessuno mi avrebbe mai notata, e nessuno noterebbe neanche te, e tu vorresti ammazzarti, e come darti torto, e quanto ti capisco.
Ha guardato per un’ora il mio piercing al naso come se le facesse schifo, e io conosco quello sguardo: ho guardato così la prima ragazza che ho visto indossare gli anfibi a metà polpaccio nel 1992 e la prima ragazza coi capelli blu vista in un museo a Parigi nel 1996.
– Ti dà fastidio? – Mi ha chiesto alla fine, con nonchalance vagamente disgustata.
– No, ce l’ho da quasi quindici anni.
– Mmmh – Ha fatto lei guardandomelo ancora più da vicino.
– E’ come quelli che hai tu nelle orecchie, mica ti danno fastidio. Se è solo per questo che non vuoi farlo non devi pensarci: non ti darà nessun fastidio.
– …
– …
– Io ti ho capita… – Mi ha detto – Tu sei una ragazza un po’ scatenata.

Vorrei che lei si salvasse ma non si salverà perché nessuno si salva da quella roba lì a meno che non capiti una roba grossa grossa grossa.
Una cosa talmente grossa da tramortire tutti per qualche anno così che lei possa prendere la porta lasciata aperta e scappare, una cosa così terrificante da fornire un alibi perfetto per tutti: penseranno che lei sia ancora ferita e allora tutto sommato la lasceranno in pace perché tanto è danneggiata e non si può aggiustare una cosa così danneggiata, e quindi tanto vale lasciare perdere.
Ma la verità è che quello che è successo lei l’ha superato da anni, non è certo quello il problema.
Quello che proprio non perdonerà mai è che l’abbiano quasi ammazzata perché non era mediocre come loro.

While we were young

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Questa sono io i primi di novembre. C’era mio padre in visita. Mio padre ha questa cosa che non parla inglese, anche se tecnicamente sarebbe in grado di verbalizzare concetti come tenchiù e mineraluòter. Quando un cameriere gli porta qualcosa lui dice “grazie!” perché teme che il cameriere, tratto in inganno dalla sua impeccabile pronuncia del tenchiù, possa in qualche modo replicare e così smascherarlo.

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Questo è Erasmusgracht sotto la nostra nuova casa a Bos en Lommer, Amsterdam. E’ un pomeriggio di inizio dicembre.

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Questo è il mio anello di fidanzamento. Quella sera siamo andati a cena fuori e, quando siamo tornati a casa dal ristorante, siamo saliti sul treno sbagliato che non ci ha portati a Zaandam ma da qualche parte verso Almere. Mentre il mio promesso sposo picchiava forte sui finestrini del treno, l’urlo acuto di due ragazzine lacerava l’aria: anche loro avevano sbagliato treno. Entrambe sono velate e truccatissime, una parla inglese, l’altra no. Anche loro avrebbero dovuto tornare a Zaandam. In realtà, ci spiega l’anglofona, loro non avrebbero mai dovuto lasciare Zaandam: per i loro genitori sono in piazzetta a sfondarsi di redbull e patatine lay’s gusto pollo. Invece sono salite senza biglietto su un treno per Amsterdam e ora stanno tornando, sempre senza biglietto. What the fuck, dice l’anglofona, odio questi cazzo di treni olandesi e odio questo posto: dove vive mia madre, in Inghilterra, è tutto molto meglio. Dieci minuti dopo si sente un grande odore di bruciato: sta andando a fuoco uno dei bagni. Il treno si ferma a Almere Poort. Le due ragazzine chiedono una sigaretta a un passeggero. Torniamo verso la città con un autobus gremito di quelli che probabilmente sono il frutto di generazioni di matrimoni tra consanguinei. Le due ragazzine sono sparite nel nulla.

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Questi sono gli scatoloni del trasloco da Zaandam ad Amsterdam, il primo gennaio. Li ho trasportati a bordo un camioncino guidato da un russo che parlava solo olandese.

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Questa è la nostra cucina. Sul frigo c’è il disegnino fatto da Laura, che è anche l’invito per il nostro matrimonio. Quella settimana ho spedito gli inviti ma molti sono tornati indietro perché ho scritto gli indirizzi dal lato sbagliato della busta. Questo ha dato origine a una performance isterica che sarebbe stata assolutamente in linea col personaggio se solo avessi avuto anche le damigelle coi vestiti a sirena e i tavoli coi nomi degli animalucci preferiti dagli sposi.

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Queste sono tutte le nostre cose che avevamo impacchettato prima di partire, esattamente un anno fa. Sono arrivate i primi di febbraio in un camioncino guidato da Nello. C’era uno scatolone supplementare con sei bottiglie di gutturnio e da qualche parte mia suocera ha imboscato un tupperware con la lingua in umido.

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Questo è come mi prende di andare in giro conciata questo inverno.

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Questa è la lavagna il giorno dell’unità sulla contestazione giovanile in Italia, a febbraio. Per scaldarli, prima di cominciare, ho distribuito alcuni slogan di piazza spezzettati e mischiati, i miei studenti li hanno riordinati. “Io sono mia” hanno fatto molta fatica a ricostruirlo perché dicevano che una cosa così ovvia non poteva essere uno slogan.

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Queste sono le scarpe con cui la sposa è andata a sposarsi.

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Questo è il raccapricciante ritratto della Nana, regalo di nozze del nostro amico Matteo.

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Questo è Llomo, la lampada cowboy che ho comprato in autunno al mega mercato delle pulci Ij-Hallen a Noord. Il tizio che me l’ha venduto non credeva alle sue orecchie quando gli ho chiesto il prezzo. I candelabri di cristallo di boemia accanto a Llomo sono il dono di nozze di determinati colleghi di mio padre dichiarati cerebralmente morti intorno al 1986.

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Io e la Nana, all’inizio della primavera.

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Un giovedì pomeriggio di fine maggio alla stazione di Sloterdijk, da dove prendo il treno per un corso serale che faccio in un’altra città. E’ stata la prima settimana veramente calda. Questo vestito l’avevo comprato in Montagnola, a Bologna, il secondo anno di università. Non lo mettevo tanto spesso però perché pensavo mi ingrassasse e quindi a un certo punto l’ho dato via nelle campane dei vestiti. Quest’inverno l’ho ritrovato in un negozio di vestiti usati a peso, a Kinkerstraat. Pesava 12 euro, l’ho ricomprato.

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Tutto questo non sarebbe mai successo se fossimo rimasti a Bologna. Ora, non è che questo tutto questo sia tutta questa gran cosa, ma non sarebbe comunque successo. Il fatto che per far succedere tutto questo, che appunto non è niente di straordinario, noi si sia dovuto fare tutto questo casino…mah, mi domando se non abbiamo un po’ esagerato. Purtroppo la risposta è ancora no: non abbiamo esagerato. Se avessimo esagerato tornerei anche domani.

Non sono più arrabbiata come prima e non ho più paura, a volte sono molto triste perché mi mancano tanto alcuni posti e alcune persone e la mia vecchia casa.
Negli ultimi mesi, non so perché, mi è preso di guardare compulsivamente tutte le puntate di “amore criminale” e pare che questa cosa sia tipica delle relazioni abusanti. Tipo sindrome di Stoccolma.

Grazie a chi è passato da qui di tanto in tanto, anche se non ha trovato scritto niente. Questo è più o meno tutto quello che è successo.
Facciamo che se passate ancora vi faccio trovare qualcosa di scritto, a ‘sto giro.

Pesci

Ieri non riuscivo a preparare una lezione. La lezione era a mezzogiorno e io non ho trovato nessuna idea più geniale di mettermi a preparare una staffetta analitica sull’uso del passato prossimo alle 11. Mi mancava il testo, allora ho pensato di adattarne uno dal blog e l’ho riaperto e ho letto qualcosa.
Alle 11.20 ho pensato di avere avuto una pessima idea, ma quello è un’altro discorso.
Quindi stasera, che sono da sola, ho letto a ritroso alcuni post e poi ho riletto tutto.

Ho sofferto proprio come un cane, eh?

Piuttosto che passarci ancora vi ammazzo tutti a fucilate.

Progetty

07.09.2015

07.09.2015

Inauguro oggi un nuovo progetto fotografico.
Se tutto ‘sto frullo e rifrullo di baffi e barbe e calzoni risvoltati e cappelli a bombetta e scarpe con gli occhi e vestiti con gli uccellini e compagnia bella, se tutto questo non m’inganna, allora penso che sia un progetto abbastanza idiota da fare di me una blogstar nel giro di qualche mese. Insomma, per quel tanto che basta per farmi guardare con un poco più di affetto dagli agenti immobiliari amsterdamesi, i quali attualmente si prendono gioco di me. Nella migliore delle ipotesi, il mio desiderio è proprio quello di replicare questa scena, perché comunque sono una ragazza con un immaginario semplice.
(“You work on commission, right?”
“Yes”
“Big mistake, big! HUGE!”).

Mostrare di avere un immaginario semplice aiuta, di questi tempi. No? Non sono sicurissima di come funzioni ma mi pare di aver capito così l’altro giorno mentre guardavo While We are Young.
Quello che vorrei tantissimo dire, in realtà, è che ho rivisto da poco Risate di Gioia e capisco fin troppo bene il personaggio della Magnani, che si sente una poverissima e se la prende tanto con Totò, e lo tortura e lo ingiuria come se fosse tutta colpa sua – povero stellino… – e non ammette invece che, molto semplicemente, anche durante il boom c’era chi era rimasto fuori. E dentro non l’avrebbero fatto entrare mai, ma proprio ma proprio ma proprio mai.
Sospetto tuttavia di essere una decina d’anni in ritardo perché questo pensiero possa rendermi interessante e sofisticata agli occhi del pubblico. Per questo prima ho citato Pretty Woman, perché ho letto che la commistione è tutto, la commistione è figa: cultura alta e cultura bassa, Monicelli che gira Moravia e un blockbuster del 1990.
Il mio ex metallaro e vegano diceva “miscuglio postmoderno” e “riflessione metamediale sulla morte dei generi” e io gliel’ho data. Ma questo accadeva nel 2007, chissà se oggi sarebbe così fortunato.

So che friggete di curiosità, ma questo scherzetto delle commistioni mi ha preso tantissimo tempo e quindi devo proprio andare.
Voi però potete fare come i miei studenti: guardate la foto e fate delle ipotesi.
Qual è il progetto fotografico che potrebbe, così su due piedi, farmi diventare la nuova regina per una notte del popolo del web oggicomeoggi?

Lijst

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L’odore dell’anno che comincia, per me, è quello dei cuscini del letto lasciati chiusi in una stanza per qualche settimana. Non so, fanno un odore diverso che è esattamente l’odore di settembre.
Dopo diversi anni, questo è il mio primo anno con stacco lungo di mare e sole e poi ritorno nel posto in cui si trascorrerà l’inverno: ben tre settimane. Non succedeva dal 2009.
Quindi ora ci sono queste belle due settimane di vuoto prima che la scuola cominci (e non per modo di dire: questa volta è veramente scuola, cioè…non saprei proprio come altro chiamarla) in cui posso intervallare momenti di euforia, ansie anticipatorie, scoramentorama.
Comunque ecco le cose che bisogna assolutamente fare da qui a luglio. Intendo quelle già programmate, non i buoni propositi: intendo quelle che se non le faccio muoio io o ammazzo qualcuno.

Cambiare casa, lasciare Zaandam per la civiltà.
Se sei cresciuto a Rovigo o a Valguarnera Caropepe o a Parabiago, forse Zaandam non è una cattiva idea, magari sopravviverai. Io però sono abituata a non dover prendere il treno tipo per andare al cinema a vedere un film decente, o per raggiungere qualunque altro luogo non abitato da gente che si accoppia tra cugini e che ne porta chiaramente i segni: è un privilegio per il quale lavoro un numero imprecisato di ore a settimana, per il quale ho mosso il mio nobile e ancora sodissimo culo con grande spargimento di lacrime e tiramenti del suddetto nobile e sodissimo, e che vorrei riprendermi.
Possibilmente prima di ricorrere allo zoloft, cosa che sento sta per arrivare.

Accedere al corso di olandese organizzato dal Comune (di Zaandam, per il momento) per vedere se almeno il gruppo – benché probabilmente condotto con la tipica incompetenza duccia nella didattica delle lingue al grido di woordenlijst – riesce a sbloccare la mia produzione orale. Cosa che dovrebbe avvenire, secondo i miei piani, non più tardi di fine novembre. Pena la morte. Mia o di qualche innocente estratto a sorte.

Chiedere ed ottenere il numerino della camera di commercio per i produttori di cibo, spacchettare i due taglieri e rimettermi sulla pasta. Ora, subito, adesso, mo.

In teoria, il 5 marzo mi sposo.

Irmalbar (un appello)

wombat-book-diary-of-a-wombatIn principio era splinder. Era un po’ di anni fa, io avevo i capelli molto più in disordine, un altro fidanzato, altri amici, una bici diversa che non usavo quasi mai.

Su splinder c’era Irma, irmalbar.
Quando ho cominciato a leggerla, Irma lavorava come barista da qualche parte tra il Veneto e il Friuli: faceva i caffè in un posto abbastanza piccolo con una clientela fissa. Mi ricordo che era in procinto di essere mollata (o di mollare, non ricordo) una gran fidanzato molto amato e matematico, o ingegnere, o informatico, o qualcosa del genere. Quindi insomma aveva il cuore inservibile. Oltre ai cocci del cuore, stava raccogliendo i soldi per fare un viaggio lontanissimo per vedere se dalla distanza le riusciva meglio di capire cosa fare. Il fatto che anche lei – nonostante fosse una ragazza molto intelligente e davvero dotata – si adoperasse attivamente per mettere in atto questa colossale cazzata di dover macinare migliaia di chilometri e un sacco di soldi per prendere una decisione assolutamente scontata e inevitabile, mi faceva sentire meno sola.
In quel periodo, mentre Irma faceva i cappuccini, io avevo un fidanzato che mi lasciava a casa con 38 di febbre e senza cibo  finché non aveva finito di vedere non so quale film prima di portarmi soccorso. Ma non odiatelo: io nel tempo libero gozzovigliavo con altri senza alcun rimorso, nell’attesa che arrivasse l’ora per lasciarlo: ovvero quando avessi ritenuto che fosse giunto il momento per me più indolore e per lui ‘sticazzi.
Mentre io lasciavo quel debole di mente, Irma partiva per tipo l’Australia. Era la fine dell’inverno di cinque anni fa. Ogni tanto pubblicava qualcosa, una foto con una gonna colorata, un panorama, qualche invettiva, mi scriveva anche dei messaggi un po’ più personali perché io e Irma eravamo diventate un po’ amiche.
Nel frattempo io avevo portato un tizio barbuto in un bar e pensavo fosse incredibilmente carino, anzi, pensavo proprio “ma che ci fa uno così carino con me, che mi sono fatta tagliare i capelli che sembro Frank ‘N Further? Mah!”.
A metà settembre io e il barbuto carino ci frequentavamo ormai da qualche mese – lui era addirittura venuto a Bologna a ferragosto per stare con me e insieme siamo andati a vedere il concerto degli Skiantos in piazza maggiore e io pensavo “oddio” – quando tutto a un tratto è arrivato un pacchetto per me dall’ Irma, dall’ Australia.
Era un libro illustrato per bambini sulla vita e le abitudini dei Vombati.
Il Vombato è il mio animale preferito. Ne ho uno, immaginario: sia chiama Bruce ed è uno scrittore pazzo con una macchina da scrivere. Bruce crede di essere il colonnello Kurtz, è a capo di una piccola ma feroce armata in un’isola sperduta e scrive romanzi e dichiarazioni di guerra.
Il libro sui vombati era accompagnato da una breve lettera in cui Irma mi diceva che in autunno sarebbe tornata in Italia, a Padova. Avrebbe vissuto con una sua carissima amica la quale aveva bisogno di aiuto pratico in casa dal momento che non poteva camminare, e forse sarebbe tornata a studiare e lavorare. Mi diceva anche altre cose carine sull’Australia e sui suoi progetti, e su quello che mi augurava.
Ovviamente le ho scritto uno, due, tre messaggi di ringraziamento. Le ho scritto anche svariati altri messaggi, nei due anni successivi: tutti senza risposta.
Irma si chiama Elena, è così che ha firmato la lettera che accompagna il libro, ed è di qualche posto tra il Veneto e il Friuli: questo è tutto quello che so di lei. Non ho un indirizzo, nè un cognome, non ho neanche un indizio per rintracciarla. Da quando splinder – la vecchia piattaforma che usavamo per i nostri blog – ha chiuso, non posso neanche inviarle un messaggio privato.
In questi cinque anni ho pensato tanto a lei, nonostante non fossi affatto sola: c’erano momenti in cui mi sarebbe servita Irma, disperatamente.

Irma, se passi da qui e leggi questo, scrivimi per dio.

Analfabétere

“…Credo che mettersi a lanciare bombe a mano potrebbe 
essere interpretato come un segno di maleducazione”
Daria Morgendorffer, 2002

L’altro giorno ho origliato una conversazione in tram, erano due ragazze italiane.
Una stava dicendo all’altra “…perché sai, io ho sempre pensato di poter contare più sulla mia intelligenza che sulla mia bellezza”.
Un grande classico.
Questo episodio – identico a decine di altri episodi analoghi origliati sui mezzi pubblici italiani e rimasti impuniti per sciocche convenzioni sociali che impediscono al saggio di redarguire e talvolta addirittura sanzionare l’idiota – ha insinuato in me il forte sospetto che l’assenza di fastidio che sperimento ormai da qualche mese (sostituita, non temete, da una grande tristezza) sia da mettere direttamente in relazione con il fatto che, nella maggior parte dei casi, non comprendo la lingua di queste persone.
Questa consapevolezza mi spinge a considerare con meno entusiasmo uno dei grandi propositi per l’anno venturo – che, come tutti sanno, comincia a settembre con la riapertura delle scuole – ovvero iscrivermi al corso gratuito per immigrati.

Poi adoro anche tantissimo quando dico qualcosa tipo “eh, com’era bello quando la normalità era un valore” e una degli astanti mi risponde “intendi quella normalità secondo cui gli omosessuali andavano incarcerati? eh? eh? eh?” con cigolii ovarici a profusione.
Quella stessa astante che non mangia quando ha fame perché “eh, noi mamme siamo abituate a soffrire”. E che “..Fellini chi?”. E che “l’olio di palma”. E che “ora mi coniughi tutto il verbo! Sai chi parla usando l’infinito, in Italia – segue imitazione di negro parlante italiano stile mami, governante di Rossella ‘O Hara – eh? sai chi? Gli immigrati! Vuoi parlare come un immigrato, tu?!”.

Che due coglioni, guarda.

La piazza è mia, la piazza è mia! (Alfredo, vaffanculo)

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Proprio ieri la stagista bionda e hippie della scuola mi ha detto, esclamativa: “sei come il bambino di Nuovo Cinema Paradiso!”.
Vi siete impressionati? Io non molto, lì per lì: ho sempre empatizzato di più con Alfredo, anche quando in effetti avevo l’età di Totò. Anzi, soprattutto in quel periodo.

Nuovo Cinema Paradiso circolò in casa mia in un’edizione vhs piratata dal misterioso collega di mio padre denominato “quello delle cassette”, personaggio mitico e dall’ancor più mitica fama di duplicatore di film, al quale i figli dei dipendenti dell’azienda del gas di Palermo debbono la visione di svariati classici Disney e le loro mogli quella di Patrick Swayze all’apice della carriera.
Comunque, il film venne visto una domenica pomeriggio. Io e mia sorella venimmo allontanate dal luogo della proiezione durante la scena dell’incendio, che era ritenuta eccessivamente violenta.
Negli anni successivi ho consumato la cassetta pirata di quello delle cassette, letteralmente: adoravo quel film. Tra l’altro, quella copia era quella della primissima edizione: quella prima dell’oscar, quella con i 40 minuti più superflui della storia del cinema. Da adolescente provavo una intima vergogna per questa storia di Nuovo Cinema Paradiso, mi sarei sentita molto più a mio agio se avesse smesso di piacermi a un certo punto, ma purtroppo non accadde. Ancora oggi non è che proprio abbia fatto pace con questa passione: Tornatore è pur sempre lo stesso regista di Malena e di altre stronzate successive di sorprendente coefficiente di nullità. Ma soprattutto, è autore di tutta quella enorme parte del film che va ben oltre i sopracitati 40 minuti e che è altrettanto trascurabile. Insomma, i minuti veramente buoni di Nuovo Cinema Paradiso – tipo quelli dell’esame di licenza elementare – sono forse una trentina e io resto tutt’ora convinta che li abbia scritti il fratello talentuoso di Tornatore, quello rinchiuso nella cantina della casa come Johnny Freak.
Quel film mi piace perché non c’è alcun particolare talento ma un amore immenso. Che questo amore sia di Tornatore o di Johnny Freak, m’importa assai.

Ma poi, posso mai perdere tempo io a giustificarmi per Nuovo Cinema Paradiso quando c’è in giro gente che sostiene di avere un cervello e contemporaneamente sostiene che Dallas Buyers Club è un bel film e in tutto ciò nessuno fa irruzione in casa loro, li trascina fuori, li denuda e li cosparge di pece e piume?
Veramente?

Ieri la stagista ha commesso l’imperdonabile errore di chiedermi quale secondo me sia il migliore cinema di Bologna. Quale vuoi che sia? La piazza, dannazione. Anzi “santo diavolone!”, come direbbe Alfredo. Non riesco neanche a descriverla a parole agli studenti, la piazza quando c’è il cinema, senza che mi si rompa la voce. E allora lei ha esclamato quello di cui sopra.
Domani danno il restauro di Nuovo Cinema Paradiso in piazza maggiore, e io non potrò andare a vederlo perché non vivo più lì. E mi viene da piangere da quanto non è giusto.